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Il Collegato Lavoro al vaglio della Corte Costituzionale

Dopo il Tribunale di Trani, anche la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n.2112 del 28 gennaio 2011, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 della Legge 183/2010 (c.d. “collegato lavoro”) per l’esiguità del risarcimento previsto in caso di conversione del contratto a termine.
La norma posta all’attenzione della Consulta stabilisce un tetto massimo all’importo dell’indennizzo che deve essere pagato dal datore di lavoro a un lavoratore nel caso in cui questi ottenga la conversione a tempo indeterminato di un precedente contratto a termine. La norma recita: “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto” (art.32 comma 5).
Il comma 6, poi, stabilisce una diminuzione della metà di tale indennizzo nel caso in cui gli accordi nazionali, territoriali o aziendali, firmati con le organizzazioni sindacali, prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a tempo determinato.
Prima dell’entrata in vigore della legge n.183/2010 al lavoratore era riconosciuto un risarcimento pari alle retribuzioni (ed alle relative contribuzioni) cui avrebbe avuto diritto dalla data di scadenza del contratto a termine sino alla effettiva riammissione in servizio. Il Giudice doveva tener conto della data in cui il lavoratore aveva offerto la prestazione e dei redditi eventualmente conseguiti con altri lavori. Il risarcimento, quindi, aumentava in base alla durata del processo e copriva tutti i periodi in cui il lavoratore era rimasto senza occupazione. Ciò poteva dar luogo per le aziende ad esborsi di misura non prevedibile con conseguente grave pregiudizio patrimoniale.
Il collegato lavoro ha modificato tale disciplina stabilendo che al lavoratore, in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, spetta, oltre alla riammissione in servizio, un’indennità “onnicomprensiva” compresa tra 2,5 e 12 mensilità. Tale indennità non tiene più conto, quindi, della durata del processo e non può eccedere i dodici mesi della retribuzione globale di fatto.
Secondo i magistrati della Suprema Corte la nuova norma anziché avere fondamento su ragioni imperative di interesse generale, avrebbe come presupposto ragioni meramente economiche, quali la necessità di evitare di esporre le imprese a risarcimenti troppo onerosi.
Pertanto, la Corte di Cassazione ha investito la Corte Costituzionale del compito di valutare se l’art.32 commi 5, 6 e 7 possa o meno ritenersi conforme al nostro ordinamento e, in caso negativo, essere disapplicato, perché in contrasto con i seguenti principi costituzionali:
– art. 4 Costituzione (diritto al lavoro) laddove si evidenza la spropor¬zione fra la tenue indennità riconosciuta al dipendente e l’effettivo danno subìto dallo stesso, che aumenterebbe con la permanenza del comportamento omissivo illecito del datore di lavoro e con la durata del processo;
– artt. 24 e 111 Costituzione che contemplano l’esercizio a far valere i propri diritti soggettivi ed interessi legittimi davanti al Giudice e quelli del cosiddetto del giusto processo;
– art. 117, 1° comma, Costituzione, per violazione dell’obbligo interna¬zionale assunto dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della Conven¬zione Europea dei diritti dell’uomo (art. 6, 1° co.), che sancisce il diritto al giusto processo e che impone al potere legislativo di non intromettersi nei processi in corso con disposizioni ad hoc (e ciò secondo la Cassazione sarebbe già avvenuto, perché il collegato incide anche sui giudizi in corso).
Attendiamo, quindi, il giudizio della Consulta.
 

Avv. Valeria Villecco

Dr.ssa Cristina Naccarato

SLCV

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