Abuso di dipendenza economica e buona fede
I RAPPORTI TRA LA DISCIPLINA DELL’ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA E LA CLAUSOLA DI BUONA FEDE
L’art. 9 della legge 192/98 vieta l’abuso, da parte di una o più imprese, dello stato di dipendenza economica nel quale sia venuto a trovarsi, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. La stessa norma stabilisce che si considera dipendenza economica la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi; la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti (comma I°).
Al successivo comma la norma stabilisce che l’abuso può consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali.
La sanzione è la nullità ipso iure del patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica, oltre all’eventuale inibitoria ed al risarcimento del danno (comma III°).
Successivamente con legge 57/2001 all’art. 9 è stato introdotto il comma 3-bis il quale prevede che se la posizione dominante abbia anche rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, l’Autorità Garante può attivare i propri poteri di indagine , ispezione, diffida e applicazione delle sanzioni previste dalla legge antitrust.
La norma in esame detta una disciplina che si pone a metà tra il diritto dei contratti e quella della concorrenza, contemplando due diverse ipotesi normative di abuso di dipendenza economica: l’abuso di dipendenza economica c.d. contrattuale, la cui rilevanza resta sostanzialmente circoscritta ai rapporti tra imprese e che, per il più limitato impatto sociale, resta di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria; l’altra, più grave, il cui rilievo valica le relazioni contrattuali e risulta perciò sanzionabile dall’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato.
Per valutare se in situazioni di dipendenza economica tra imprese, ricorrano o meno comportamenti abusivi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20106 del 18 settembre 2009 ha fatto riferimento alla clausola generale di buona fede ( art. 1375c.c.) e correttezza (art. 1175 c.c.).
Secondo la suprema Corte, infatti, l’obbligo di buona fede oggettiva e di correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica e che, il criterio di buona fede, costituisce per il giudice uno strumento finalizzato al controllo dello statuto negoziale al fine di garantire il contemperamento degli opposti interessi.
Anche l’imprenditore, quindi, quando esercita la propria autonomia contrattuale deve rispettare determinati canoni generali (buona fede oggettiva, correttezza) perché diversamente gli si consentirebbe di esercitare i propri diritti contrattuali in modo abusivo: la buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto “in equilibrio” e nei binari della proporzione.
Secondo la giurisprudenza è il giudice che deve effettuare il controllo sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata: detto controllo dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza dell’altra siano stati portatori di comportamenti abusivi.
Dr.ssa Antonella Vizza
SLCV