Si può ricorrere alle presunzioni nella prova della domanda di risarcimento dei danni da demansionamento
Nella recente sentenza n. 24233 del 30/11/2010 la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha riproposto un principio già stabilito dalle Sezioni Unite della medesima Corte il 24 marzo 2006 con sentenza n.6572.
L’argomento è quello dell’onere della prova nella domanda di risarcimento del danno sofferto dal lavoratore per effetto del c.d. demansionamento professionale.
Per comprendere il principio dettato dalla Suprema Corte bisogna partire dai seguenti presupposti logici-giuridici che ne costituiscono il fondamento.
Secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza e della dottrina la responsabilità del datore di lavoro ha natura contrattuale con la conseguenza che la violazione degli obblighi contrattuali da parte datoriale, ed in particolare del divieto di dequalificazione (art.2103 c.c.) e dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità (art.2087 c.c.), integrano gli estremi dell’inadempimento contrattuale, regolato dagli artt.1218 e 1223 c.c. Tali previsioni distinguono il momento dell’inadempimento – ossia la violazione degli obblighi di cui agli artt.2103 e 2087 c.c. – sanzionato con l’obbligo della retribuzione, dal momento della produzione del danno, risarcibile solo se “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento.
Sulla base di tali principi il danno patito dal lavoratore non discende in via automatica dall’inadempimento datoriale, nel senso che è in re ipsa, ma al contrario esso va provato dal lavoratore, il quale è tenuto a dimostrare, ai sensi dell’art.1223 c.c., l’esistenza di un nesso di causalità fra l’inadempimento ed il danno precisando quali, fra le molteplici forme di danno, ritenga di aver subito.
Il danno da demansionamento può essere distinto in patrimoniale e non.
Fra i danni patrimoniali, in primo luogo, si annovera il danno professionale, considerato sia come l’impoverimento della capacità professionale con mancata acquisizione di maggiore capacità sia come la perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Il lavoratore, per ottenere il ristoro di tale specifico danno, dovrà fornire, relativamente al primo aspetto, un’adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di un’attività soggetta a continua evoluzione che avrebbe portato vantaggi alla sua esperienza professionale destinati a venir meno a causa del mancato esercizio. Relativamente al secondo aspetto (perdita di chance) il lavoratore demansionato dovrà provare le aspettative di guadagno che avrebbe conseguito in caso di regolare svolgimento del rapporto.
Il discorso sul danno biologico (danno all’integrità psico-fisica) è più semplice in quanto questo tipo di danno non può prescindere da una perizia medico-legale e la sua quantificazione è effettuata attraverso il sistema tabellare, senza necessità di precise indicazioni ed allegazioni ad opera del danneggiato.
Il danno non patrimoniale, il c.d. danno esistenziale, è configurabile come danno all’identità professionale sul luogo di lavoro, ossia la lesione del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro, tutelato dagli artt.1 e 2 della Costituzione. Ha natura non patrimoniale in quanto l’illecito datoriale incide sull’aspetto non reddituale del lavoratore, alterando le sue abitudini di vita e relazionali, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale danno si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del c.d. danno morale), ma è oggettivamente accertabile attraverso la prova, a cura esclusiva del danneggiato, di precise circostanze comprovanti l’adozione di scelte di vita diverse da quelle che il lavoratore avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso.
Per questo tipo di danno non si può prescindere dall’onere di allegazione del lavoratore, in quanto, essendo legato indissolubilmente alla persona, necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire. Per cui non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, perché questi elementi integrano soltanto l’inadempimento del datore di lavoro, ma è poi necessario dare la prova del nesso causale, ossia che tutto ciò ha inciso negativamente nella sfera del lavoratore alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita.
Ma veniamo, dunque, più strettamente alla questione della prova.
La Corte di Cassazione ha, oggi, ribadito che “il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l’allegazione dell’esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell’esistenza del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni”.
I Giudici di legittimità hanno rigettando il ricorso di un datore di lavoro il quale riteneva erroneo il riconoscimento – da parte dei giudici di merito – del danno da demansionamento in favore di un proprio dipendente perché non sorretto da idonea prova, confermando la sentenza della Corte di Appello che correttamente aveva ritenuto che, nel caso di specie, l’onere probatorio poteva essere adempiuto, oltre che mediante prove di natura documentale e testimoniale, anche per presunzioni.
Infatti, essendo il “danno esistenziale” accertabile attraverso la dimostrazione di fatti comprovanti le scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso, può assolversi all’onere probatorio attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: documentali (ad es. deposito di documentazione), testimoniali (ad. dei congiunti e/o colleghi di lavoro). Siccome, poi, il pregiudizio subìto attiene ad un bene immateriale, importante rilievo assume la prova per presunzioni cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva per desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, purché ciò avvenga secondo le regole dell’art.2727 c.c. “allorché venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze ….. complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 c.p.c. a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.
Dr.ssa Cristina Naccarato
Avv. Valeria Villecco
SLCV